Salice in tour con Gio Evan, Diario di Bordo parte 2: «Bruce mi tocca una spalla e mi dice “cinque minuti e tocca a te!”»

La prima pagina del diario di bordo di Salice è stato un successo, quindi evitiamo di dilungarci troppo e lasciamo la parola all’artista.

Salice in tour con Gio Evan
Diario di bordo, parte 2

30 Novembre 2019
Common Ground, Napoli

salice gio evan tourAncora non mi sono abituato a viaggiare in alta velocità. Quando ho cominciato a frequentare Milano, prenotavo con almeno un paio di lustri in anticipo un espresso notturno alla modica cifra di trentacinque euro, sessanta se andava male. Parlo del 2007, esisteva già un treno chiamato Eurostar che faceva la tratta dell’A1 in sei ore. Dieci anni fa era pochissimo tempo. Ad ogni modo, non so perché l’espresso notturno – il più lento di tutti i treni – lo chiamassero in quel modo. Partiva alle nove di sera da Napoli, arrivava alle nove di mattina a Milano. Ci metteva dodici ore, l’espresso. Fermava praticamente in tutte le stazioni d’Italia, Casalpusterlengo inclusa.

Nel 2008 – avevo 18 anni – fuori le principali stazioni d’Italia comparvero degli enormi monoliti rossi. Il primo lo vidi a Bologna. C’era su un countdown arancione, e in fondo ad esso si intravedeva il confine tra il vecchio modo di vivere il treno e i vagoni col wi-fi.

È sempre strano viaggiare da quando i monoliti rossi sono diventati i treni ad alta velocità. Ti ritrovi a Napoli in uno sparo, come teletrasportato. Il viaggio non esiste più. Ora c’è un’affusolata camera d’albergo in condivisione. Quando ieri ho raccattato la chitarra dal portabagagli e sono uscito in Piazza Garibaldi per dirigermi a casa, ho vissuto la sensazione che provo da dieci anni a questa parte: come ci sono arrivato? È una specie di jet lag, ma al contrario. Come se il corpo si fosse aspettato di viaggiare per altre sei ore e invece è già lì, a ordinare un vassoio di sfogliatelle per Gio Evan e il suo team.

Quando sono arrivato a casa mi sono tolto le scarpe, e mi è balenata agli occhi la banale immagine che fossero le stesse che avrei usato la sera stessa per suonare. Pensavo di aver lasciato una buona fetta d’ansia da palcoscenico nei camerini dei Magazzini Generali, invece eccola qui. Solo peggiorata. Ingigantita. Forse semplicemente appesantita.

L’arrivo a Napoli

Ero arrivato a Napoli in quattro ore e me la sono ritrovata lì, che mi aspettava in un paio di scarpe. Stavolta è stato peggio, perché io sono napoletano. Essere napoletani significa che hai molti amici napoletani che verranno al concerto di Gio al Common Ground di Napoli perché ci sei tu ad aprire. E come se non bastasse, quattro amici che ti chiedono “sei agitato? Eh? Hai ripassato le canzoni? La suoni Santi? Eh? La fai Kappa?” ce li ho in casa: sono il primo di cinque figli.

Mia madre, come da copione, mi ha visto agitato e quindi mi ha preparato un caffè. Mio padre mi ha accompagnato al Common Ground come quando mi portava a scuola, dicendomi ogni cinque minuti che avrei fatto tardi se non mi fossi dato una mossa. Ovviamente siamo arrivati in netto anticipo rispetto all’orario di load in, solo che non c’erano sigarette da fumare di nascosto e ragazze che non ti lasciano il numero di telefono.

Soundcheck

Gio Evan era in pieno soundcheck. Perfetti come al solito (se non vi è ancora capitato, venite a un suo show, fa brillare il palco come pochi). Dopo è toccato a me, è durato molto meno e sono stato molto meno perfetto. Sono entrato in camerino a consumare mezza sfogliatella e quando sono uscito avevano aperto le porte. Era tutto pieno. Le luci erano spente, e mentre ero perso con gli occhi nella folla, Bruce – del team di Gio – mi tocca una spalla e mi dice “cinque minuti e tocca a te!”. L’agitazione mi aveva liquefatto le gambe in tipo due secondi. C’erano lì un sacco di miei amici a cui presentare questo Salice, amici con cui avevo condiviso i palchi della metà dei centri sociali della Campania, quando ancora si pogava. Avevo scritto che mille persone che applaudono a fine canzone sono una droga potentissima, ma ieri ne ho trovata una più forte: venti persone che cantano insieme a te.

Mentre scrivo, sono in treno verso Milano. Fermo alla stazione di Firenze Santa Maria Novella. Era la tappa centrale, il giro di boa in quei bui viaggi della speranza. Tredici anni fa erano le tre di notte. Vedevo le case dei fiorentini, tutti a letto, con le imposte serrate. Mando un sms alla mia migliore amica. “Sono alla stazione di Firenze. Tutti dormono, è bellissima. Un giorno scendo qui”. È giunta l’ora: venerdì prossimo siamo al Viper.

Leggi la prima pagina del diario di Salice: «L’ansia mi si era appiccicata sui polmoni…»

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