Salice in tour con Gio Evan, diario di bordo ultima pagina: «Foto di famiglia, e c’è la band, c’è il fonico, c’è il manager, ci sono io»

E’ da un po’ che seguiamo Salice in tour con Gio Evan e purtroppo questa piccola rubrica è giunta alla fine. Non facciamola troppo lunga e passiamo subito all’ultima pagina del diario di bordo di Salice.

salice gio evan

Salice in tour con Gio Evan
Diario di bordo, ultima parte

11 febbraio 2020
Bloom, Mezzago

L’essere umano, a differenza di altre specie animali, nelle fasi di maturazione dipende particolarmente dagli individui che lo aiutano a crescere, e ciò comporta una fase di attaccamento considerevolmente più lunga e, conseguentemente, sviluppa una dipendenza – in senso affettivo – assai marcata.

Nella letteratura scientifica che tratta di elaborazione della separazione non ho trovato il capitolo relativo all’ultimo giorno. Quando ho tirato fuori dal portabagagli la chitarra per andare a fare il soundcheck mi sono accorto che avevo gli occhi lucidi, che ho immaginato facessero pendant con la nebbia brianzola che si alzava tutt’intorno. Nel locale c’era la stessa nebbia (stavano provando il ghiaccio secco), ma a quanto pare la mia sagoma capelluta era abbastanza riconoscibile: Salice!, ha gridato Giampiero (tastierista di Giò), dopo due passi che ebbi fatto verso Avalon. Che, vuoi non continuare a lacrimare?

Per il web sta girando una foto, scattata da Gio col telefono di Bruce. Si chiama Foto di famiglia, e c’è la band, c’è il fonico, c’è il manager, ci sono io. Quando, all’inizio della quest, sono arrivato ai Magazzini Generali un po’ spaesato, fradicio di pioggia e coi capelli piegati male mi sentivo assai fuori luogo. Non sapevo cosa dire al fonico, in che modo chiedere la birra col gettone delle consumazioni, come dire a Bruce che ero felicissimo, che faccia fare quando dopo il concerto i fan di Gio mi fermavano per farmi i complimenti. In realtà, è probabile che non abbia imparato nulla, ma, malgrado fossi un perfetto sconosciuto, mi hanno accolto come fratello, come amico, come compagno di classe un po’ in difficoltà da aiutare a scendere dai gradoni un po’ troppo alti del palco. “Salice, passami la chitarra”.

Il Bloom è la storia della musica brianzola. Locale punk come pochi, è di una poesia indescrivibile. È un club fatto apposta per far casino: perfetto per la chiusura di un tour. Il labirintico backstage (un pezzo passa addirittura all’esterno) fa da corona al palco; considerando, poi, che ci sono le di tutti quelli passati di lì prima di te, sembra una walk of fame che ti porta al palco – anche se per come gestisco l’ansia in quel momento l’avrei paragonata al miglio verde.

A differenza di altri live, durante i quali dopo la prima canzone entravo in una sorta di trance agonistica, in cui non sentivo più le parole delle canzoni, cercando di non sbagliare nulla dopo aver rotto il ghiaccio col pubblico, durante il concerto al Bloom sono stato lucido tutto il tempo, ho sentito ogni parola che ho cantato, mi sono sentito come alle prove nel salotto in casa mia. Ho sentito, tutto il tempo, che era l’ultimo giorno. Poi sono sceso dal palco.

L’elaborazione della separazione è una parabola: discende vertiginosamente verso un buco nero; le giornate, prima delle voluminose composizioni a colori, appaiono grigie e piatte, tutte uguali, e non vanno in nessuna direzione. Stanno ferme. Poi, a un certo punto, si supera il punto di flesso e si dovrebbe risalire. Salice ora non sa cosa fare, ma qualche colore sta ritornando, qualcosa ha almeno acquisito la forma di bassorilievo. Il nuovo dungeon è un bosco, ma sulla scheda personaggio, tra gli strumenti in dotazione, è comparsa una bussola.

Leggi anche: Salice diario di bordo

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