Henry Beckett: “Un Americano perché mi ci spacco volentieri”

Fuori dal 3 giugno “Some people get lost”, di Henry Beckett dall’anima anglosassone e di stanza a Milano che segue i precedenti singoli “A Boy Needs To Grow” e “Blackbird”. Non potevamo lasciarcelo sfuggire, e ci siamo lasciati trasportare in questa intervista approfondita. Ecco cosa ci ha raccontato!

Henry Beckett

Quali sono stati tre dischi che a tuo parere che sono stati fondamentali per la tua formazione musicale?

Love Is Hell – Ryan Adams.
Sun Leads Me on – Half Moon Run
A Deeper Understanding – The War On Drugs

Esci da indipendente nel 2017, cos’è cambiato da allora, quando la scena underground era decisamente più sgombra?

Probabilmente quello che hai detto tu, ma questo in particolare è un aspetto da cui mi faccio relativamente toccare. Alla fine, per quanto riguarda l’Italia, io non devo sgomitare tra i mille artisti italiani che propongono lo stesso tipo di musica, trovandosi a competere tra loro in un mercato decisamente saturo. Il mio obiettivo è rimasto lo stesso dal 2017: dare credibilità a un genere che nel nostro paese è poco conosciuto e far sì che si crei un mercato anche per questo. Ciò che invece è veramente cambiato è l’essere maturato sotto diversi aspetti che penso possano darmi un aiuto in questo percorso, oltre all’aver trovato sempre più persone che hanno dedicato alla mia musica la loro passione e cura.

Hai mai fatto un viaggio on the road negli stati uniti o l’hai solo immaginato?

L’ho fatto da bambino sulla costa est, da Boston fino al Canada. Ero con i miei genitori e mia sorella ed è uno dei viaggi passati a cui sono più affezionato e di cui, per fortuna, sono state conservate tantissime foto e filmati. Non capitava spesso di essere tutti e quattro insieme, essendo mia sorella molto più grande di me. Ora desidererei fare un viaggio coast to coast per fare diretta esperienza delle immagini suscitate dalla musica che amo: spazi sconfinati, coste californiane, parchi silenti. Vorrei portarmi la chitarra e suonare su qualche palco lì per immergermi in un contesto dove potrei sentirmi, per certi aspetti, più a casa.

 E cosa c’è di italiano nel tuo progetto musicale?

Sicuramente le persone che hanno lavorato e lavorano con me, sono tutte italiane e mi sento onorato di aver lavorato con ciascuna di esse. Per la produzione del primo EP “Heights” devo ringraziare Stefano Elli, produttore, cantautore e chitarrista, e Pietro Gregori, batterista e capitano del progetto di MILANO SHANGAI.

Con Max Elli ho prodotto “Riding Monsters”, l’album che pubblicherò quest’anno. Con lui ho avuto un’esperienza fantastica in cui penso di aver imparato tantissimo sia a livello artistico che a livello umano. Voglio ringraziare anche Giordano Colombo, produttore e batterista, che ha aggiunto il suo tocco ad alcuni brani del disco.
E infine sono felice di essere supportato dall’etichetta CRAMPS che ha creduto in questo progetto.

Ultima domanda: se fossi un drink quale saresti e perché?

Un Americano. Semplicemente perché mi ci spacco volentieri.

 

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