Intervista Alessio Bernabei: “Il mio lato pop punk non morirà mai!”

Alessio Bernabei è tornato con il nuovo singolo “Everest“. Non un semplice brano, ma una vera e propria ripartenza per lui, che ha anche scelto di autoprodursi e lasciare la casa discografica Warner dopo diversi anni. In questa chiacchierata Alessio ci racconta di più sul nuovo brano, su tutto il suo percorso personale e con i Dear Jack.

Alessio Bernabei

Intervista Alessio Bernabei

“Everest” è il tuo nuovo singolo; è un brano dove ti metti a nudo e vengono fuori le tue fragilità. Nel brano ti rivolgi ad una figura femminile, ma sono parole che dedicheresti anche a te stesso?

Sì, diciamo che il brano è inteso come una dedica verso qualcun altro, ma ti confermo che in realtà è anche per me stesso. Mi sono reso conto in questi anni di aver provato ad amare altre persone quando in realtà avrei dovuto amare prima me stesso. “Everest” è anche questo per me.

Di “Everest” hai scritto sia testo che musica. Negli anni è cambiato il tuo approccio alla scrittura e il tuo modo di scrivere?

Sì, con gli anni mi sono evoluto. Ho iniziato la mia carriera che ero un 21enne e in quegli anni cresci, maturi e cambi modo di scrivere. Rispetto a molti brani che ho scritto anche solo l’anno scorso, già sono cambiato e mi ci ritrovo meno. Quindi ogni anno è una continua evoluzione. Diciamo che “Everest” è il frutto dell’ultimo anno perché cambio anche io personalmente e si modifica tutto.

Nel testo citi: “Sorrisi falsi a mia madre, poi morivo sul letto. Sempre solo, sempre stanco ma con il sogno dentro”. In passato hai raccontato di un periodo buio fatto di attacchi di panico. Nel brano ti riferisci anche a questo? E’ mai tornato quel malessere?

Gli attacchi di panico per me sono un po’ ciclici, ogni tanto ritornano. Periodicamente nella mia vita ricompaiono: per esempio ogni cinque anni, magari per qualche mese, ho gli attacchi di panico. E’ un po’ come la fine di un ciclo e l’inizio di un altro. Forse è dovuto un po’ anche ad un cambiamento; ogni tanto si ripresentano ma con l’età ho imparato a gestirli meglio quindi ora mi fanno meno paura rispetto al passato.

Hai sempre scritto canzoni ma in passato ti sei affidato anche a degli autori. Ti sei pentito di questa scelta? Ci sono canzoni che non ricanteresti?

No, non rimpiango le canzoni che ho scritto insieme ad altri autori e che mi hanno dato anche come interprete. Ho avuto la fortuna di lavorare con autori che sono tra i migliori che abbiamo nel nostro Paese, quindi non rimpiango le canzoni che ho fatto. Sono sempre stato un cantautore quindi ho scritto anche molti brani personali, che però non ho fatto uscire come dei singoli. Questo è forse il primo brano che esce proprio come singolo.

Ti senti più un cantautore, quindi?

Sì, io ho l’esigenza di scrivere. In questi anni molte volte mi è passata anche un po’ “la fame” ti dico la verità, perché ero preso dal turbinio, soprattutto quando ero nella band. Poi è ritornata: adesso se non scrivo sto male, quindi mi fa molto piacere scrivere i pezzi.

L’era Dear Jack

Hai sempre sognato di far parte di una band e con i Dear Jack ci eri riuscito. Poi li hai lasciati. Il sogno di far parte di una band è perché la vedevi come una famiglia che proteggesse le insicurezze che vengono fuori da solo?

No, il mio sogno di band nasce perché amavo essere il leader, il frontman di una band. Per me quello era “il sogno”. Sono cresciuto con band un po’ punk come i Green Day e i Blink182 e avrei voluto essere quello. A quattordici anni volevo essere Billie Joe Armstrong, in versione band. I miei genitori mi iscrivevano ai concorsi di canto come solista, loro volevano il cantante stile Sanremo, io invece dicevo: “No io voglio spaccare, voglio essere rock! Voglio la band con cui spacchiamo le chitarre sul palco!“. Poi raggiungi la band di successo, perché con i Dear Jack eravamo la band simbolo in quei due anni, ma ti accorgi che non è proprio come ti immaginavi.

Essere in una band è un po’ come essere in una società: se con i soci non ti trovi bene e ci sono delle discordanze a livello di idee, non puoi andare avanti. E’ come quando ti trovi male con i colleghi a lavoro. Ho dovuto lasciare. Mi è dispiaciuto perché io comunque sogno ancora di essere quella roba lì. Però lo sono lo stesso, con la band che mi accompagna nei live.

Durante gli anni con i Dear Jack loro soffrivano la tua presenza? Al momento del tuo abbandono le voci che Lorenzo Cantarini volesse soffiarti il posto da leader erano molte…

Secondo me Lorenzo non voleva soffiarmi il posto, ma voleva solo essere anche lui al pari di un frontman, che è diverso. Parlando di lui, lui era quello che organizzava un po’ tutte le cose. Ma un po’ tutti avevano l’idea di band sullo stile “siamo tutti frontman”. Per loro dovevamo essere tipo microfono, batteria vicino a me… tutti in linea. Una band stile Pooh, ma io ho un’idea di band diversa. Non perché i Pooh non mi piacciano, ci metterei la firma. Ma è un’idea diversa: un conto è una boyband, un conto sono i Queen. Io volevo essere Freddie Mercury, la mia idea di band è quella; che poi io non abbia manco un unghia del piede sua è un altro conto!

Domanda un po’ schietta: quanto ti sei sentito sfruttato dall’industria discografica e dal mondo della musica?

Nel momento in cui decidi di fare musica commerciale, ovvero vendibile negli stores, diventi un prodotto. Quindi quello è normale, ci deve essere e accetti la cosa, altrimenti continui a fare musica nel garage di casa. Non credo che sia vendersi: si tratta di decidere se vuoi lavorare con la musica ed essere prodotto, oppure suonare con gli amici e fare quello che ti pare. L’unica volta che ho provato la sensazione di mollare tutto non era perché mi sentissi un venduto o perché volessero spremermi, ma perché non capivano chi ero come artista. Io mi sentivo nero e loro volevano che fossi bianco.

Sei cresciuto con band pop punk come Blink, Sum41 e Simple Plan. Hai mai sentito l’esigenza di tornare alle tue origini e a fare quel genere?

Nessuno lo sa, ma quando torno a casa a Tarquinia molte volte vado a suonare anche con Pierozzi (ex Dear Jack)! Quella parte di me non morirà mai, la voglia di essere uno dei Blink o dei Simple Plan rimane sempre nell’anima. Poi il contesto italiano ti porta a fare altro, io sono felice di fare musica italiana e scrivere canzoni in italiano, però la parte da rockstar rimane sempre. Per me è anche uno sfogo, molte volte vado a casa, chiamo Pierozzi gli dico “ho voglia di suonare, vediamoci!“.

Hai suonato nei palazzetti, a San Siro e Sanremo, che sono considerati come un punto di arrivo per molti. Cosa ti manca da realizzare e quali sono i tuoi obiettivi oggi?

Gli stadi, i palazzetti e Sanremo non li considero come obiettivi raggiunti. Sì, ho suonato su quei palchi ma per me adesso la prova è ritornarci e rimanerci per tutta la vita su quei palchi. Se ti devo dire che ho realizzato il sogno è un no, perché il sogno lo realizzerò quando a ottant’anni mi guarderò dietro e dirò: “Ho avuto sessant’anni di carriera perfetti e sono felicissimo“. Lì sentirò di aver realizzato i miei sogni. Se ti dovessi dire un sogno sparato in grande, poi magari non lo è, sarebbe avere una casa a Los Angeles: amo gli Stai Uniti.

Ultima domanda: Quali sono le tre canzoni più importanti della tua vita?

Se te ne dovessi dire una mia è “Anima Gemella” perché è la prima canzone che ho scritto in italiano, ed è quella che ha cambiato tutto perché ci ha fatto entrare ad Amici e che mi ha portato fortuna.

Del mio percorso di vita senza dubbio “Iris” dei Goo Goo Dolls, che mi ha accompagnato in molte fasi critiche della mia vita. “Billie Jean” di Michael Jackson, perché rappresenta un po’ tutto l’immaginario anni ’80 che mi piace molto. Ed infine “I Just Called To Say I Love You” di Stevie Wonder perché è la canzone che portavo sempre ai concorsi canori.

 

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Leggi anche: “Billie Joe Armstrong, i cinquanta sono sempre più vicini”

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